Di fronte al dolore per la morte del proprio bambino non ci sono più parole, c’è solo il pianto, la manifestazione, cioè, più individuale ed intima, nascosta, di una sofferenza altrimenti inesprimibile. Ed allo stesso tempo è un pianto antico, universale ed esteso, quasi, al dolore di tutti gli esseri viventi, capace di esternare in quattro quartine di settenari (verso breve e, qui, icastico, dal ritmo particolarmente franto e singhiozzante) un sentimento privato e inaccessibile, legato ad un evento e ad un momento particolari, ma insieme estendibile al passato – anche attraverso una densa filigrana di rimandi testuali e concettuali alla poesia classica, ed in particolare al lirico greco Mosco ─ e al futuro, nel momento in cui questo Pianto antico si fa emblema della condizione esistenziale dell’uomo.
Già il titolo di questa breve lirica, legata alla scomparsa del piccolo Dante (avvenuta nel giugno del 1871), unico figlio maschio, oltre alle due bambine Beatrice e Laura, di Carducci, ed inserita nella raccolta Rime Nuove (1887), ci dà l’esatta percezione del periodo storico e degli sviluppi della poetica dell’autore.
Il componimento si colloca, infatti, in quella fase che segna per Carducci il passaggio da poeta artiere a poeta artista che, abbandonato lo strale polemico-satirico di Giambi ed Epodi e la foga giacobina e libertaria della fase "satanica", si concentra su temi più intimi e privati, affrontando appunto il problema del dolore, della morte, della memoria e della nostalgia con un atteggiamento di virile accettazione del destino, lontano sia da tentazioni nichilistiche ed autodistruttive, che da prospettive consolatorie di marca spirituale-cristiana, ma sempre confortato dalla lezione della poesia classica. Anche un altro componimento della stessa raccolta, infatti, Funere mersit acerbo, che prende il titolo da un emistichio virgiliano dell’Eneide, rievoca la scomparsa del piccolo Dante, legata idealmente a quella dell’altro Dante, fratello ventenne dell’autore, morto suicida pochi anni prima.
Le quattro strofette di quest’ode anacreontica, all’apparenza semplici e dall’andamento piano, quasi cantilenante (una rima baciata all’interno di ognuna di esse, tra il secondo e il terzo verso, ed una rima finale che le collega tutte nell’ultimo verso, sempre tronco), nascondono, anche a livello metrico, una struttura complessa e piena di richiami interni.
Il ritmo si sviluppa dalla prima all’ultima strofa in un crescendo di drammaticità, rendendosi man mano più asciutto, franto, spezzato dall’allitterazione della lettera r e da suoni duri ed aspri. Parallelamente lo stile volge verso una perentorietà che si fa lapidaria, al punto che l’ultima quartina è quasi un epitaffio, nelle ripetizioni anaforiche e nella rigidità icastica del costrutto.
Alla perfetta corrispondenza tra livello fonico, timbrico e ritmico (secondo il principio di equivalenza postulato da Roman Jakobson) fa riscontro un campo semantico che si sviluppa in modo parallelo alla struttura lessicale. Le prime due quartine, infatti, enucleano il concetto, potremmo dire, panteistico del perpetuo rinascere, del "rinverdire" della vita, in un ciclico ritorno di colore, odori, luce, calore e sono dominate da un ritmo disteso, piano, in una struttura salda e precisa che viene geometricamente e altrettanto precisamente ribaltata, letta quasi in uno specchio, nelle due quartine conclusive.
La continua rinascita e l’avvicendamento naturale e ciclico di vita e di morte che avviene sulla terra si riflette specularmente nella fine definitiva ed irrevocabile di un evento unico e irripetibile che nessun’altra estate potrà resuscitare alla vita.
In questa prospettiva rovesciata, dunque, ciò che prima si svolgeva sopra la terra lascia il posto a ciò che per sempre sarà racchiuso sotto la terra, dentro di essa, e quello che a livello temporale ritornerà sempre si scontra con quello che non si ripeterà mai. Il parallelismo semantico inoltre è sagomato su quello sintattico. Entrambe le coppie di quartine, infatti, hanno il soggetto posto in evidenza in principio di verso con funzione enfatica di parola chiave (l’albero…/tu…) ed il verbo nella quartina successiva (rinverdì…/ sei…), evidenziando anche a livello grammaticale quello che si potrebbe definire un "chiasmo semantico", per cui alle parole albero e fior della prima strofa corrispondono tu fior e mia pianta nella terza. Qui si sviluppa, anche grazie alla forte funzione conativa del tu ad inizio verso, a alla funzione emotiva del possessivo mia, la metafora che è alla base dell’intera lirica, tra l’albero-natura che si rinnova, e l’albero-uomo (il poeta) ormai sfiorito e privo di vita.
Nell’ultima quartina, infine, all’iniziale tendevi, verbo di movimento e di conato, è contrapposto –e raddoppiato- il verbo sei, segno di assoluta e irrevocabile staticità. Il ritmo si fa discendente e pone in risalto la cupa aggettivazione posta in fine di verso (…fredda/…negra), fino a raggiungere, nei due versi finali, una definizione di morte che il poeta riesce a descrivere solo in via negationis (né…/né…), ovvero per sottrazione di tutti quegli elementi vitali così fortemente sottolineati in principio: sottrazione di calore, di luce, di gioia, di amore. E qui, dove la morte può essere definita solo come non-vita, il pianto antico si fa rimpianto presente.